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Robert Pogue Harrison

Autor(a) de Forests: The Shadow of Civilization

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About the Author

Robert Pogue Harrison is the Rosina Pierotti Professor of Italian literature and chair of graduate studies in Italian at Stanford University. He is the author of Forests: The Shadow of Civilization, The Dominion of the Dead, and Gardens: An Essay on the Human Condition, all published by the mostrar mais University of Chicago Press. mostrar menos

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Harrison, a professor of Italian literature, takes us on a wandering, meditative journey through an idiosyncratic selection of his preferred cultural habitats – Thoreau’s cabin at Walden, Vico’s philology, Aeschylus’ Xerxes in The Persians, the Italian poets Leopardi and Magrelli, the Vietnam memorial in Washington, lesser known works by Rilke and Conrad – along with some of the usual suspects: Homer, Joyce, Dante, Virgil and Shakespeare. Included too is Heidegger, whom he clearly admires, but with whom he picks a few small bones.

Harrison’s scope encompasses the nature of place, earth, home and grave, and their relation to burial; mourning and grieving and how these are vocalized; philology as an excavation of the authority of the dead; Heideggerrean existential guilt as a form of debt to the dead; Christian theology and attitudes toward grief; the way in which our species is an object of thought and how cultural representations of this incorporate or express our mortality; and the role of the corpse and its relation to the afterlife. The aim of all this wandering – if there is one – appears to be to trace all the ways in which the living and dead depend upon one another.

Harrison is extremely well read, and he drops in for brief visits with a very wide range of literary, historic, anthropological and philosophical sources and ideas. This scholarship is impressive. His writing tends to the ‘poetic’ and aphoristic – which seems equally impressive to start with, but gradually loses its impact, despite the flair for the elegant well-turned phrase.

Some of my discomfort with this ruminative rhetoric may not be simply the relentlessly clever and elegant language, but the assertiveness or conclusiveness of his statements. I suppose we can read these as provocation for our own thought, and helpfully so at times. Harrison says of his book that it is a net with ‘empty spaces for the reader to enter and wander about in.’

Overall this is an impressively scholarly book, but in its wandering and aimless quality, and the seductive beauty of its language at times, requires real effort to stick with, think carefully about, and to avoid falling through his net into emptiness.
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breathslow | 2 outras críticas | Jan 27, 2024 |
Not what I was told it was (i.e., a symbolical analysis of funeral rites).

In any case, the first few pages were very powerful and fascinating. But going on, it started to look like boring repetition of mostly poorly-justified statements.
 
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kenshin79 | 2 outras críticas | Jul 25, 2023 |
“Giardini” è un saggio talmente ricco di riferimenti, omaggi e citazioni letterarie, filosofiche, storiche da renderlo difficile da classificare. Non a caso la parola cultura affonda le sue radici nella terra. Il sottotitolo “Riflessioni sulla condizione umana” chiarisce subito che non si parla di giardini in termini botanici o naturalistici, ma chiamarlo saggio sembra alla fine riduttivo.

I giardini sono la metafora ideale per comprendere l’evoluzione dell’uomo fino alla “follia” dell’età contemporanea, come la definirebbero alcuni filosofi italiani che pur partono da altre premesse. Perché la pace è intesa come preludio di morte, perché all’Eden si preferisce la “felix culpa”, perché in Occidente bisogna agire, competere, superare, trasformare, produrre; perché oggi il desiderio chiede solo ancora altro desiderio e genera irrequietezza: la vita vuole altra vita, in un’avidità bulimica che oltre ad allontanarci dalla natura tout court, ci allontana dalla natura umana, dalla nostra fisiologia promettendo una immortalità garantita dalla scienza, dalla medicina: dalla tecnica direbbero Umberto Galimberti e Emanuele Serverino.

Dai giardini di Epicuro a quello del Candide di Voltaire, dall’”hortus conclusus” di Boccaccio ai chiostri monastici, dal giardino “invisibile” agli studenti dell’Università di Stanford a quello filosofico Zen: la lettura è intensa e molto istruttiva, dunque addirittura educativa e formativa per la maggioranza estranea al mondo tridimensionale, a proprio agio davanti alla TV o al computer ma cieca ai fenomeni naturali. Come ha scritto Milan Kundera l’europeo non guarda più il cielo, non sa più la forma della luna quando arriva e quando se ne va.

Sembra che i giardini nascano prima dell’agricoltura, espressione del bisogno tipicamente umano di trasfigurare e abbellire la realtà, sono addirittura terapeutici per i senzatetto che con le loro composizioni improvvisate a cielo aperto rivendicano una creatività, lottano per non perdersi del tutto e fissare il “punto fermo del mondo che ruota”, per dirla con T.S. Eliot. “Nessuna rivoluzione potrà accelerare i tempi della germinazione o far fiorire il lillà prima di maggio”: alla fine il giardiniere è un saggio, maturo e paterno, scrive Harrison citando Capek, qualcuno che dà più di quanto prenda (come dovrebbe valere in amicizia, nel matrimonio, nell’educazione), che si sottomette alle leggi della natura, come raccomandavano gli antichi Greci abitanti del Cosmo. Non pecca di hybris, non distrugge il giardino terreno e mortale che abita perché così facendo distruggerebbe anche se stesso.

… (mais)
 
Assinalado
AntonioGallo | 1 outra crítica | Nov 2, 2017 |
“Giardini” è un saggio talmente ricco di riferimenti, omaggi e citazioni letterarie, filosofiche, storiche da renderlo difficile da classificare. Non a caso la parola cultura affonda le sue radici nella terra. Il sottotitolo “Riflessioni sulla condizione umana” chiarisce subito che non si parla di giardini in termini botanici o naturalistici, ma chiamarlo saggio sembra alla fine riduttivo.

I giardini sono la metafora ideale per comprendere l’evoluzione dell’uomo fino alla “follia” dell’età contemporanea, come la definirebbero alcuni filosofi italiani che pur partono da altre premesse. Perché la pace è intesa come preludio di morte, perché all’Eden si preferisce la “felix culpa”, perché in Occidente bisogna agire, competere, superare, trasformare, produrre; perché oggi il desiderio chiede solo ancora altro desiderio e genera irrequietezza: la vita vuole altra vita, in un’avidità bulimica che oltre ad allontanarci dalla natura tout court, ci allontana dalla natura umana, dalla nostra fisiologia promettendo una immortalità garantita dalla scienza, dalla medicina: dalla tecnica direbbero Umberto Galimberti e Emanuele Serverino.

Dai giardini di Epicuro a quello del Candide di Voltaire, dall’”hortus conclusus” di Boccaccio ai chiostri monastici, dal giardino “invisibile” agli studenti dell’Università di Stanford a quello filosofico Zen: la lettura è intensa e molto istruttiva, dunque addirittura educativa e formativa per la maggioranza estranea al mondo tridimensionale, a proprio agio davanti alla TV o al computer ma cieca ai fenomeni naturali. Come ha scritto Milan Kundera l’europeo non guarda più il cielo, non sa più la forma della luna quando arriva e quando se ne va.

Sembra che i giardini nascano prima dell’agricoltura, espressione del bisogno tipicamente umano di trasfigurare e abbellire la realtà, sono addirittura terapeutici per i senzatetto che con le loro composizioni improvvisate a cielo aperto rivendicano una creatività, lottano per non perdersi del tutto e fissare il “punto fermo del mondo che ruota”, per dirla con T.S. Eliot. “Nessuna rivoluzione potrà accelerare i tempi della germinazione o far fiorire il lillà prima di maggio”: alla fine il giardiniere è un saggio, maturo e paterno, scrive Harrison citando Capek, qualcuno che dà più di quanto prenda (come dovrebbe valere in amicizia, nel matrimonio, nell’educazione), che si sottomette alle leggi della natura, come raccomandavano gli antichi Greci abitanti del Cosmo. Non pecca di hybris, non distrugge il giardino terreno e mortale che abita perché così facendo distruggerebbe anche se stesso.

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AntonioGallo | 1 outra crítica | Nov 2, 2017 |

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