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Benny Morris is the leading figure among Israel's "New Historians," who over the past two decades have reshaped our understanding of the Israeli-Arab conflict. He serves as professor of history in the Middle East Studies Department of Ben-Gurion University, Israel. His books include One State, Two mostrar mais States; Righteous Victims; Israel's Border Wars, 1949-1956; and The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited. mostrar menos
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Obras por Benny Morris

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MHQ: The Quarterly Journal of Military History — Spring 2009 (2009) — Author "Lashing Back" — 5 exemplares

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Data de nascimento
1948-12-08
Sexo
male
Nacionalidade
Israel
Local de nascimento
Ein HaHoresh, Israel

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Críticas

Alcuni giorni fa, nella ricorrenza della Guerra del Kippur, Hamas attraverso un massiccio lancio di missili da Gaza ed una serie di assalti guidati da commando armati ha attaccato Israele ed è penetrato all’interno dello stato ebraico. A due giorni di distanza dai fatti Israele dichiara lo stato di guerra (come se il paese non si trovasse già in un perpetuo stato di belligeranza), una colonna di tank si dirige verso Gaza mentre un diluvio di bombe piove sulla striscia. Il bilancio, che certamente non può dirsi definitivo, è di oltre 700 morti israeliani, 2.500 i feriti, moltissimi gravi, 750 dispersi, almeno 100 ostaggi nelle mani di Hamas. Sul fronte palestinese le vittime sarebbero cinquecento e i feriti oltre 2.700 (fonte Corriere della Sera 9 ottobre 2023).

Il conflitto in Medio Oriente risale agli ultimi decenni dell'Ottocento, quando nacque il movimento sionista fondato da Theodor Herzl. Un'accesa conflittualità, sovente brutale da entrambe le parti, che ha ormai abbondantemente attraversato più di una generazione, sia tra gli attori coinvolti, così come tra chi ha il ruolo di spettatore, e nemmeno troppo distanti dal palcoscenico di guerra se consideriamo che sono solo duemila chilometri a separarci dalla Palestina e da Israele. Eppure di questo rovinoso confronto si è quasi sempre parlato nella prospettiva dell'attualità, come sta accadendo in questi giorni, tra sommari e frettolosi giudizi di parte, senza cercare di approfondire le ragioni secolari che ne stanno alla base. Su un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Paolo Mieli scrive: “conosciamo tutti la complessità della questione mediorientale (quantomeno ne sanno qualcosa quelli che davvero se ne sono occupati seriamente). E siamo consapevoli del fatto che, in quel contesto, «bene» e «male» non sono collocabili per intero da una parte o dall’altra”. Un richiamo a quella “neutralità morale” con cui Benny Morris afferma di aver scritto “Vittime. Storia del conflitto arabo sionista 1881 - 2001” (RCS 2001, traduzione di Stefano Galli).

In questo libro lo storico Morris ricostruisce le fasi del conflitto, ne analizza i presupposti ideologici, dà conto delle profonde differenze religiose, etniche e culturali fra gli immigrati ebrei e le popolazioni arabe che da decenni convivono in Palestina. Un volume enciclopedico che qualcuno, non ha torto, ha definito un monumento, forse per le sue quasi 1.000 pagine di storie, eventi, analisi, date, personaggi tra i quali giganteggiano Haji Amin Al-Husayni, David Ben-Gurion, Golda Meir, Anwar Sadat, Menachem Begin.

Ho scelto Benny Morris perché è considerato un intellettuale radicale di sinistra nel suo Paese, accusato di odiare Israele e boicottato da una parte del mondo accademico israeliano. Ho preso tra le mani il suo libro perché egli afferma di essere sempre stato sionista e che “la gente si sarebbe sbagliata applicandogli l'etichetta di post-sionista, pensando che le sue ricerche sulle origini del problema dei profughi palestinesi siano state condotte con l'intenzione di tagliare le gambe all'impresa sionista”. L’ho scelto perché questo “Vittime. Storia del conflitto arabo sionista 1881 - 2001” ha un taglio decisamente geopolitico, anche se gli aspetti economici, religiosi e culturali, non sono stati trascurati quando ritenuti determinanti per la comprensione dei fatti. Ma soprattutto l’ho letto perché Benny Morris è straordinariamente cinico e racconta gli accadimenti per quelli che sono, contestualizzando azioni ed obiettivi che le stesse si ponevano quale fine. E lo fa con una disarmante lucida sincerità, senza pensare a cosa altri penseranno di lui. Nel bene e nel male.

In un’intervista comparsa sul quotidiano israeliano “Eretz”, Morris, nel 2020 ha dichiarato: “quello che mi interessa è la verità, non la giustizia. Ho ovviamente una mia visione personale di cosa sia giusto e cosa no, ma nel mio lavoro di storico cerco di mettere in fila i fatti, di capire come sono andate le cose studiando i documenti".

E sui documenti attraverso i quali è stata elaborata quest’opera, tuttora considerata un punto di riferimento per altri autori, giornalisti e ricercatori, va subito detto che l’autore è molto chiaro nel dirci che spesso il ricorso a fonti secondarie è stato quanto mai necessario, ove le fonti primarie risultassero non consultabili perché coperte da segreto militare e soprattutto che il suo lavoro non fa eccezione, proprio per la disponibilità o meno di tali fonti, ad una sorta di “intrinseco squilibrio” nel quale la parte sionista tende ad essere illuminata in modo più completo e particolareggiato rispetto a quella araba, tanto sul piano politico quanto su quello militare. La spiegazione sta nel fatto che gli archivi sionisti e israeliani sono più organizzati e aperti agli studiosi (anche se scritti da sionisti, in un contesto e da una prospettiva loro consona), mentre sul versante arabo l’uso dei documenti non è stato di entità paragonabile e soprattutto è stato sovente influenzato da severe limitazioni politiche e ideologiche.

Leggendo questo “Vittime. Storia del conflitto arabo sionista 1881 - 2001”, si nota però il grande sforzo di Morris di mantenere quel distacco che lasci a chi legge il necessario spazio di manovra per soppesare autonomamente i fatti. Docente di storia al dipartimento di Studi Medio orientali dell’Università Ben Gurion del Negev a Be'er Sheva, l’autore ha dichiarato a “Pagine Ebraiche” che la ricerca della verità è quello che ha guidato la sua carriera. “Che l’uso politico che fanno altri del mio lavoro non mi interessa”. Per questo ha sempre tirato dritto nonostante sia stato accusato da destra e da sinistra di essere un traditore o un ipocrita. Fu etichettato come “Refusnik” durante la prima Intifada (si rifiutò di servire nell’esercito perché considerava “legittima la lotta per lo più pacifica dei palestinesi contro l’occupazione israeliana”), anche se dopo la violenza della seconda, con migliaia di morti israeliani assassinati dal terrorismo palestinese, i fatti ai suoi occhi sono cambiati. Insomma non c’è la ricerca della perfezione e nemmeno la presunzione di una neutralità assoluta, non connaturata all’animo umano. Figurarsi in questo contesto dove la portata internazionale, la genesi storica (è comune l’errore di valutare i fatti di oggi solo alla luce degli avvenimenti accaduti dopo il 1948, ma le premesse del conflitto sono da ricercare ben più indietro nel tempo), le sfaccettature religiose, politiche e culturali rendono quasi impossibile adottare una posizione neutrale.

Resta, secondo la mia opinione, un utile lavoro di ricerca e di esposizione, di grande aiuto ogni qualvolta mi sono trovato nella necessità di ricercare informazioni e dettagli su fatti e risvolti del conflitto tra israeliani e palestinesi, così come quando ho voluto confutare eventi descritti o che hanno rappresentato una fonte d’ispirazione per la letteratura legata al tema, come ad esempio per “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa. Questo di Morris è un libro da tenere sempre a portata di mano perché, come ebbe a scrivere Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”, “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
… (mais)
 
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Sagitta61 | 7 outras críticas | Oct 10, 2023 |
 
Assinalado
markm2315 | 5 outras críticas | Jul 1, 2023 |
Began just looking for solid info on the 1930s Israel / mandate situation, but was so good, wound up running it all the way through. As often happens- I thought I was "strong" on the 6 day war, 1973 wars, but .... wrong again. This book had much to add - both in core content / facts, but more in what I thought was a fairly objective reporting of the mood of the participants. As even handed as one can hope for from a book like this.
 
Assinalado
apende | 7 outras críticas | Jul 12, 2022 |
Published in 1969, it is extremely detailed in terms of military history and covers both Arab and Israeli failures and atrocities, though there’s nothing uncontroversial in this area. Arab nationalism and Zionism were both locked in opposition and mutually reinforcing as Jews poured into Palestine, spurred by the Holocaust and the world reaction to it, and the British tried to appease their Arab clients without pissing off the far more pro-Jewish and then pro-Israeli Americans. The UN proposed a partition, which the Arab states didn’t accept and which initially proposed to leave a substantial (approaching close to half the population) Arab minority in the Jewish territory. Instead, the Arab states invaded (Iraq, Syria, Jordan, Egypt), but were hampered by poor equipment, limited manpower, and a focus on making sure that no independent Palestine came into existence; they preferred to divide the territory among themselves and the existence of Israel didn’t necessarily seem that much worse than a Palestinian state, not that any of the leaders could say so publicly. Things got worse for them in terms of materiel because of an arms embargo once the war started, whereas the Jews were used to buying weapons on the black market and successfully got a lot through, with the help of substantial funds from Jews in the US and elsewhere and of trained military personnel (including a number of Christians), many of whom had learned their skills fighting against the Nazis.

Though the nascent state was in real danger of disappearing, things got better for Israel as the fighting went on. Nonetheless the entire Jewish state was mobilized for war, as the Arab countries weren’t, and the war footing couldn’t go on forever. With a lot of international pressure, mostly against the militarily more successful Israelis, it didn’t. But it turns out that an absence of peace can last a very long time, especially since the Arab states didn’t do much to integrate Palestinian refugees. Although the number of Jews expelled from Arab states was roughly equivalent to the number of Arabs expelled from Israeli territory, Israel made many more efforts to integrate the former (though they apparently remained a seriously right-wing, anti-Arab voting bloc), while Arab states kept the refugees segregated in camps, creating a reserve army of potential anti-Israel fighters. Weak states have trouble making peace, and the first two Arab leaders who seriously conducted peace negotiations were murdered (King 'Abdullah in 1951 and Anwar Sadat).
… (mais)
 
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rivkat | 5 outras críticas | Dec 23, 2021 |

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