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A carregar... De la part de la princesse morte (original 1987; edição 1987)por Kenizé Mourad
Informação Sobre a ObraRegards from the Dead Princess: Novel of a Life por Kenizé Mourad (1987)
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Adira ao LibraryThing para descobrir se irá gostar deste livro. Ainda não há conversas na Discussão sobre este livro. La historia de Selma Rauf Hanim, nieta del sultán otomano Murad V, desde su infancia cuando la nobleza turca es expulsada del país y se extiende a lo largo de las costas del Mediterráneo. Su paso por una escuela católica francesa en el Líbano, obligó a un matrimonio arreglado con un príncipe indio. Una mujer que no está resignada al peso de la tradición, ue se muda a París a mediados de la Segunda Guerra Mundial, embarazada de una niña, donde finalmente se adueñará de sí misma. sem críticas | adicionar uma crítica
Pertence à Série da EditoraPrémios
This true account of the life of Selma, the grand-daughter of a Sultan of the Ottoman Empire, has been written by her journalist daughter, who is now a special correspondent in the Middle East and India. Não foram encontradas descrições de bibliotecas. |
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Google Books — A carregar... GénerosSistema Decimal de Melvil (DDC)843.914Literature French French fiction Modern Period 20th Century 1945-1999Classificação da Biblioteca do Congresso dos EUA (LCC)AvaliaçãoMédia:
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Kenizé Mourad, autrice di questo “Da parte della principessa morta” è nata a Parigi nel 1940 ed è la figlia di una principessa ottomana, la Selma Rauf Hanim che anima il romanzo, che altro non è che la nipote del sultano Mourad V. Chi dunque meglio di lei poteva raccontare il declino dell’impero ottomano, la presa al potere di Mustafa Kemal Atatürk e l’esilio della dinastia ottomana dalla terra che ne aveva accresciuto il mito e lo splendore in tutto il mondo. Il romanzo, un volume di oltre seicento pagine, prende avvio con la descrizione dall'infanzia dorata della principessa (la mamma dell’autrice) nello splendore della corte della Sublime Porta e si dipana attraverso il traumatico esilio in Libano, a seguito della caduta della regnante aristocrazia ottomana, il suo matrimonio combinato con un Raja di un un remoto quanto pittoresco ed integralista “stato” islamico indiano ed infine il tragico epilogo nella Parigi invasa dalle truppe tedesche in pieno conflitto mondiale.
Non è stata però un’impresa semplice costruire questo romanzo, a mezza via tra la grande saga storico familiare e il romanzo autobiografico. Giornalista del Nouvel Observateur dal 1970, l’autrice ha seguito la rivoluzione iraniana, la guerra in Libano ed ha compiuto numerosi viaggi in India e Pakistan. Lascia il suo lavoro nel 1983 per dedicarsi alla scrittura, in modo particolare a questo libro che le ha richiesto oltre quattro anni di lavoro: due di documentazione (non ha mai conosciuto la madre e le sue ricerche sono state intense) e due di scrittura. Leggendolo si comprende il perché: c’è una attenzione quasi morbosa ai dettagli, a volte un poco eccessiva, in qualche punto quasi claustrofobica per chi legge. Il rischio, infatti, è di restare imprigionati nelle cesellature e perdere lo slancio emotivo delle vicende che ci offrono un quadro inedito di quel particolare momento storico, facendoci scoprire usi, costumi, tradizioni, rigidi cerimoniali non sempre raccontati. É la stessa Mourad ad ammettere questa sua debolezza per il dettaglio, tanto che in un’intervista ha dichiarato di aver trascorso molto tempo nel ricostruire, visto che nessuno più lo ricordava, di che colore erano i bottoni della divisa delle guardie del Sultano.
Il libro è strutturato in quattro parti: la prima dedicata al periodo turco, quella della giovinezza, del mondo a mezza via tra passato e presente, tra gloria e declino, dove alle immense ricchezze del Sultano e di una infinita famiglia regale si contrapponevano le miserie del popolo. Siamo nel cuore dell’impero, nel 1911, affacciati sul Bosforo. Ci muoviamo in sottobosco che per noi occidentali ha del favolistico: ancelle, eunuchi, schiere di personaggi d’altri tempi. Poi c’è l’harem, dorata prigione delle donne, anche se sono sultane e principesse, in una società dominata dalle rigide regole dell’Islam. C’è tutto il sapore delle “Mille e una notte” nel “Palazzo dei merletti”, recinto dorato nelle guerre intestine della famiglia regnante, ma è pur sempre un mondo di luce, tra marmi lucenti, tappeti preziosi, fontane e giardini freschi e rigogliosi. Poi scoppia la guerra, arriva la repubblica e con essa la diaspora della famiglia reale che si perde in giro per il mondo.
“Selma è stata risvegliata da un suono melodioso, dolce e insistente. Apre gli occhi e sorride alla fanciulla che, seduta ai piedi del letto, sfiora con una piuma le corde dell’oudh. E’ un’abitudine orientale, quella di evitare un brusco risveglio, perché di notte, dicono, l’anima vaga, in altri mondi, e bisogna darle il tempo di ritornare a piccoli passi nel corpo”
Eccellente l’apparato storico che funge da base alla narrazione ed ai personaggi che la popolano. Un lavoro complesso in cui si nota la penna della giornalista Mourad, tanto che le si perdonano alcune imprecisioni o licenze. L'anno di nascita di Selma è indicato come 1911, anche se sulla sua lapide essa risulta venuta alla luce nel 1916 ed in alcune genealogie nel 1914. Poco importa a chi legge (non è questo un saggio) se l’autrice scrive che il sultano Murad III, nella lotta per il potere, fece assassinare ben diciannove fratelli e suo padre Selim II cinque, quando invece la cronaca storica ci racconta che fu Murad III a far uccidere i suoi cinque fratellastri e suo figlio Mehmed III a farne uccidere diciannove. Il refuso sublima dunque nel patos dei sentimenti più intimi che qui sono messi a nudo.
Una seconda sezione del racconto è quella che vede i paesaggi del Libano a far da contorno all’esilio, alla tradita speranza di un ritorno, alla progressiva perdita di potere e di ricchezza. Il tutto con uno sguardo davvero sorprendente su Beirut, cosmopolita, dorata e sfavillante città del Medio Oriente, e sul mosaico etnico religioso che la popolava, oltre che sull’amministrazione francese. In questo contesto Selma diventa adolescente in cerca di una propria identità, distrutta dall’abbandono di un padre che amava ogni oltre misura, aggrappata all’Islam che aveva governato la sua fede, i suoi costumi e il rango privilegiato, in lotta con la scuola rigidamente cattolica che frequenta e oggetto d’attenzione quasi morbosa in ricevimenti e cene di gala tra maroniti, drusi, sciiti, sunniti e “crociati” francesi. Una Francia che Kenizé Mourad ha dichiarato di aver vissuto con una certa conflittualità interiore, a tratti percepibile anche nel libro, perché fino a trent’anni, ha dichiarato nel 2011 in un’intervista, “sentivo di essere stata tenuta a distanza dalle mie radici contro la mia volontà, di essere stata educata come cristiana per tenermi lontana da mio padre che era musulmano”.
La riscoperta della sua famiglia che esplode in questo libro è anche il racconto di un altro lato dell’Islam rispetto ad una visione occidentale zeppa di preconcetti stereotipati. La figura del padre è una figura emblematica nella vita di Selma. Nel romanzo, dopo l'esilio della dinastia ottomana, prima scompare, poi riemerge, impegnato in diversi incarichi per conto del governo repubblicano, poi quasi si defila nel ruolo di viaggiatore senza meta fino all’approdo in Brasile. In realtà, pur corrispondendo a verità che egli non seguì la moglie ed i figli in esilio, parrebbe si fosse premurato di mandare mensilmente loro del denaro per un certo periodo. Morì nel 1936.
“Non conosce la lingua araba, e la voce monotona del vecchio sceicco le fa venire sonno. Eppure non ci sono alternative: il libro santo deve essere letto nella lingua originale, così come è stato trasmesso da Allah al profeta Maometto perché, secondo la tradizione, il peso del Verbo divino prevale sulla comprensione umana, che in ogni caso è limitata”.
Kenizé Mourad non si stanca mai di cesellare ogni scena e, più di ogni altra, la sua minuzia descrittiva, la precisione del racconto, il trasporto per ciò che che ella descrive, si manifestano nella terza parte del romanzo quando Selma, la principessa ottomana delusa da tutto e tutti si concede in sposa, diventa la Rani del Raja di un piccolo “stato” dell’India, torna ad assurgere al ruolo che la storia ed il diritto ereditario le hanno assegnato. Con delusione scoprirà però di essere nuovamente la straniera, quasi più straniera di quanto mai si era sentita. Prigioniera è sottomessa alle regole rigide di un Islam radicale (che non a caso costituirà la matrice religiosa del Pakistan) che ben delinea ed opprime il ruolo della donna, in un paese a mezza via tra la strada della non violenza professata da Gandhi e i tumulti della rivolta, contro gli inglesi prima di tutto (che di li a poco l’abbandoneranno al suo destino), ma anche tra ricchi e poveri, tra musulmani e indù.
La principessa Selma, incarcerata in un matrimonio senza amore con Amir, Raja di Badalpur (nella realtà sposò Sajid Husain Zaidi Ali, Raja di Kotwara), assiste impotente alla progressiva e rapida disgregazione di quella armonia tra religioni che era il vanto di Lucknow e che l’aveva resa un centro indiano permeato da un’arte di vivere di grande raffinatezza, un’armonia che si rifletteva nella pittura, nella poesia, nella musica, nell’architettura. Non basterà la sua presa di coscienza e nemmeno il suo impegno civile nei confronti degli oppressi, dei più poveri, delle donne a farla prevalere contro assurde tradizioni ancestrali. Sarà e resterà sempre un’esule senza più radici, in una terra che quasi la rigetta.
“Le prescrizioni e i divieti - diceva - sono le alte pareti costruite per raggiungere il cielo, ma più esse si innalzano, più il cielo si restringe, e presto si scorge solo un misero quadratino azzurro che non ha più niente del cielo, è soltanto un quadratino azzurro”.
La quarta parte di “Da parte della principessa morta” è quella in cui la giovane Selma, che sta aspettando una bambina, riscopre la vita, la rinascita in una Francia che le risveglia i sensi, la inebria quasi. Ma è una parentesi breve, un raggio di felicità fugace, subito oscurato dalle nubi della guerra che incombe, dall’occupazione nazista, dalla scoperta della povertà, dal disagio immenso, infinito di essere nuovamente un’esule senza patria. L’epilogo arriva d’improvviso, inaspettato. Perché il destino non è prevedibile, così come dovrebbe essere il finale di ogni buon libro.
Edito nel 1987 è diventato da subito un bestseller in Francia, con una più tiepida accoglienza oltremanica. Tradotto in oltre trenta lingue attirò molta attenzione per il fatto che, per la prima volta, la caduta dell'Impero Ottomano fosse raccontata dal punto di vista “turco” e per di più da un membro della dinastia imperiale ottomana. Forse è per questo motivo che in Turchia il libro, nonostante il successo di pubblico, fu censurato nelle parti in cui la figura dell’eroe nazionale Mustafa Kemal Ataturk era messa in cattiva luce o criticata. Solo per questo meriterebbe la nostra attenzione. Resta un grande romanzo storico, ma anche e soprattutto un viaggio dell’anima di chi ha voluto ritrovare i volti e il cuore del suo mondo lontano. ( )