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A carregar... On the Road (1957)por Jack Kerouac
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Written in the first person, it tells of Sal Paradise (the narrator) and Dean Moriarty as they hitchhike, drive, and take buses all over the country, meeting various other characters. In some ways, the novel is a love paean to Dean (Neal Cassady in real life), who seems to be bipolar in manic mode for most of these trips. They do a lot of drinking and smoking marijuana, go out to jazz and other music clubs, and Kerouac spends lots of energy describing the wondrousness of the music he hears. I think the book's depiction of sex was a bit scandalous at the time too- he doesn't describe the sex in any detail, but tells about the chase at length. This book became one of the key touchstones of the "Beat Generation", and it did help me understand what "Beat" is- young people without a care, searching for new experiences, living on minimal money in post WWII America. I don't think the book ages that well. Probably I don't get it. The writing isn't anything amazing- I don't think Kerouac was particularly insightful about the inner life, and descriptions of the music and the people are not particularly beautiful or poetic. But I guess the vibe is the point, and he certainly gives us that. A bunch of messed up dudes traveling around, drinking too much, carrying on foolishness, while the rest of America went to work, and tried to be decent human beings. Kerouac has a unique style of writing that carried me through the book, but all I felt when it was finished was despair for the future of the human race. "Isn't it true that you start your life a sweet child believing in everything under your father's roof? Then comes the day of the Laodiceans, when you know you are wretched and miserable and poor and blind and naked, and with the visage of a gruesome grieving ghost you go shuddering through nightmare life." Quando riprendo tra le mani uno dei libri che vanno letti almeno una volta nella vita, provo sempre una certa inadeguatezza nel parlarne. Non fa eccezione questo “Sulla strada”, universalmente conosciuto con il titolo originale di “On the road” di Jack Kerouac. Non posso dire sia uno dei libri di quel periodo che mi è piaciuto di più, ma resta senza dubbio, in considerazione dell’epoca in cui è stato pubblicato, un’icona generazionale e della letteratura “beat”. Come mi disse qualche anno fa un appassionato relatore ad un convegno sulla “beat generation” questo “è un romanzo che ha catturato lo spirito ribelle e avventuroso dell'America degli anni '50 ed è diventato un'opera fondamentale nella storia della letteratura americana”. Lo è senza dubbio mi sento di dire, come è certo che questo romanzo uscito nel 1957, ma che snoda la sua narrazione errante in un lasso temporale compreso tra l’immediato secondo dopoguerra e il 1950, rappresenta uno dei testi più influenti e celebri della cultura d’oltreoceano del XX secolo, capace di influenzare anche il pensiero europeo. Non a caso ne conservo in biblioteca un paio di copie. Un'edizione curata dalla San Paolo all’interno di una collana dedicata ai “Grandi della narrativa” edita nel 1998, che si arricchisce di una sezione iniziale dedicata alla vita dell’autore nato nel 1922 e alle sue opere, con una sintetica, ma efficace bibliografia di approfondimento. La seconda che è questa, nella tradizionale edizione degli Oscar Mondadori (1995) nella collana “Scrittori del Novecento”, impreziosita da una bellissima introduzione dedicata alla “beat generation” firmata da Fernanda Pivano. In entrambe le stampe la traduzione è affidata a Magda de Cristofaro. A priori dico subito che, rivedendo anche i miei paranoici appunti di gioventù sui libri che leggevo (ero già un seguace del culto pagano dei libri, quegli stessi oggetti sovversivi che Ray Bradbury brucia nel 1953 nel suo celebre Fahrenheit 451), che le mie impressioni su “On the road” sono mutate più volte. Se nella foga idealista post adolescenziale lo avevo descritto e raccontato come l’essenza della fuga, dell’indipendenza, della scoperta, dell’esperienza, tanto poi da fare scelte che nella vita riflettono quell’idea e quelle sensazioni (ho scelto di viaggiare per anni in giro per il mondo rinunciando alle certezze di un lavoro sicuro), nella rilettura più matura ne ho ricavato sensazioni certamente più nostalgiche, una visione più distaccata di certi eventi fuori dalle pulsioni dal contesto storico in cui si svolgono. Dunque anche una minore speditezza nella lettura, che a tratti, lo confesso, mi ha quasi disorientato, benché la mia esperienza su latitudini e longitudini mi corra sempre in aiuto. Inseguire Sal Paradiso ed il suo circo di amicizie un po’ folli non è una passeggiata in piano, ma un po’ di cinetosi si può sopportare. Ne desumo che ciò sia l’effetto di quella che Kerouac stesso ebbe a definire come una “prosa spontanea” e che quella incredibile spontaneità che l’autore trasferisce alla sua scrittura mi è apparsa come l’immagine in velocità delle righe al centro della strada che si percorre. Insomma, si deve metabolizzare la velocità e al contempo il senso dell’istantanea. Si deve cogliere l'istante perché, in quanto tale, è irripetibile, non più rielaborabile all’interno di un testo scritto per catturare il flusso di coscienza e l'energia del movimento, essenza stessa del viaggio che spinge gli interpreti a girovagare con, ma anche senza, una meta precisa. Una necessità vitale per una gioventù ribelle che cerca di sovvertire l’ordine sociale e culturale in cui si trova a vivere e al quale rifiuta di conformarsi. La Hudson dei protagonisti, che corre, scivola via, quasi senza una rotta precisa, sulle strade d’America, incarna lo spirito d’avventura, la voglia di improvvisazione, di estemporaneità del periodo beat. «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero» diceva Orazio, “mentre parliamo il tempo sta fuggendo, come se ci invidiasse. Cogli l'attimo (afferra il giorno) e spera il meno possibile nel domani”. Il romanzo di Kerouac è un “carpe diem” che ha caratterizzato un’epoca in cui, le ferite ancora aperte di chi tornava dal fronte della Seconda Guerra Mondiale si mescolavano ad un’insofferenza generazionale che contestava i padri, ma anche il sistema del buon vivere americano, delle politiche del potere guerrafondaio e cercava una nuova filosofia di vita. Un ricerca che, negli anni che seguiranno, influenzerà fortemente la gioventù americana, i movimenti pacifisti, le arti, la narrazione della vita stessa. Per chi non ne abbia mai sentito parlare, dico subito che il romanzo è diviso in cinque parti. Kerouac racconta di una incredibile serie di viaggi in autostop e autobus, in gran parte improvvisati, fatti dal veterano Sal Paradiso (oggi diremmo l’avatar di Kerouac stesso) e dai suoi amici attraverso gli Stati Uniti. Kerouac lo scrisse in poco meno di un mese, nella primavera del 1951 nella sua dimora di New York, rielaborando i suoi diari di viaggio fatti con gli amici tra il 1947 e il 1950. Possiamo quindi chiaramente parlare di un romanzo autobiografico nel quale non è nemmeno molto difficile identificare protagonisti e attori: se Sal Paradise, aspirante scrittore in cerca di ispirazione, è l’alter ego di Kerouac, il controverso amico Dean Moriarty, carismatico, istintivo, che nell’avventura trova il senso puro della libertà, certamente si ispira a Neal Cassady. A completare il cast troviamo poi Carlo Marx (Allen Ginsberg) e Old Bull Lee (William S. Burroughs). In un’America in grande fermento, dove lo scontro generazionale va salendo, Sal, nell’inverno del 1947, conosce Dean Moriarty da poco uscito di prigione e novello sposo, con un concetto assolutamente beat del matrimonio libero, poligamo e “sperimentale”. Insieme a loro bazzicano tra locali e comuni improvvisate un gruppo di giovani pensatori tra cui, il nome è già un programma, Carlo Marx il poeta. La filosofia di vita di Moriarty è contagiante. La sua visione libertaria della società, talvolta fortemente egocentrica, perennemente alla ricerca di esperienze al limite, con ampio abuso di alcol e droghe, influenza il gruppo, ma soprattutto Sal, alimentando nel giovane protagonista una sorta di idolatria nei suoi confronti, nonché la brama di evasione da confini geografici e barriere ideologiche, dalle convenzioni, dalla necessità di sperimentare e allargare i propri orizzonti di bravo ragazzo americano. E il viaggio è la via di fuga, la dimensione errabonda e dell’avventura che lo porterà a percorrere la mitica Route 66, a scivolare da una costa all’altra degli States, a San Francisco e Los Angeles, dove conosce una ragazza messicana di cui si innamora, nelle grandi distese del Midwest, tra i Grandi Laghi, nelle paludi del profondo sud oggi tanto care alla scrittura di Lansdale. Colonna sonora del viaggio per antonomasia è il jazz primigenio, il be bop alla Miles Davis e la voce dai riflessi blues di Billie Holiday. “In principio il nostro viaggio fu piovigginoso e misterioso. Potevo capire che tutto stava per diventare una gran saga nella nebbia. “Urrà” urlava Dean. “Ecco che andiamo!” E si rannicchiava sul volante e lanciava la macchina come un bolide; era tornato nel suo elemento, ognuno di noi poteva vederlo. Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare” (“On the road” di Jack Kerouac). Non è la meta che importa, è il viaggio. Non è un viaggio, sono tanti viaggi. Che messi insieme rappresentano nella narrazione di Kerouac una rivoluzione culturale capace di catturare l'essenza e l'energia della controcultura beatnik degli anni '50 e influenzare generazioni a venire di artisti, scrittori e musicisti. Nel libro però, quasi tutto dovesse avere una fine per ritrovare una rinascita, Sal, complice una malattia, inizia a distaccarsi da Dean, ne comprende l’egoismo dell’abbandono e umanizza il mito, non lo colpevolizza perché in lui matura la consapevolezza che è il momento di scegliere cosa fare della propria vita, lasciando il compagno di tante avventure alla esistenza errabonda e sbandata che egli si è scelto Credo di aver già detto molto su un libro su cui è stato scritto davvero tutto e mi sarebbe oltremodo difficile, nello spazio che mi sono accordato, elaborare un trattato sulla cultura e sulla generazione beat. Per questo rimando all’ottima presentazione di Fernanda Pivano nell'edizione Oscar Mondadori che fa un racconto e un'analisi accurata del fenomeno. Chiudo con un pettegolezzo, una piccola faziosità sollevata da alcuni, tra questi il critico Ronald K.L. Collins che, dalle pagine del Washington Post, insinua il dubbio che forse, senza quella fortuita, brillante, convincente recensione a firma di Gilbert Millstein sul New York Times (era il settembre del 1957), “On the road” sarebbe stato un libro qualunque. Millstein, che influenzò certamente altri recensori dopo di lui, ne parlò come di “un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte” e aggiunse definendo il libro come “l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”. Va da sé che un libro cult generazionale come “Sulla strada” ha da sempre raccolto intorno a sé grandi estimatori che lo hanno esaltato per aver offerto una onesta rappresentazione della gioventù dell'epoca e dei propri ideali, così come di detrattori che lo hanno aspramente criticato per aver enfatizzato uno stile di vita anarchico, senza regole e persino autodistruttivo. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto senza quella fatidica recensione, quello che però possiamo affermare con certezza è che “Sulla strada/On the Road" ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura e la cultura americana, influenzando scrittori e autori come Bob Dylan, Allen Ginsberg e Hunter S. Thompson. Ha anche ispirato molte persone a intraprendere viaggi simili in cerca di avventura e del significato della vita. Quando riprendo tra le mani uno dei libri che vanno letti almeno una volta nella vita, provo sempre una certa inadeguatezza nel parlarne. Non fa eccezione questo “Sulla strada”, universalmente conosciuto con il titolo originale di “On the road” di Jack Kerouac. Non posso dire sia uno dei libri di quel periodo che mi è piaciuto di più, ma resta senza dubbio, in considerazione dell’epoca in cui è stato pubblicato, un’icona generazionale e della letteratura “beat”. Come mi disse qualche anno fa un appassionato relatore ad un convegno sulla “beat generation” questo “è un romanzo che ha catturato lo spirito ribelle e avventuroso dell'America degli anni '50 ed è diventato un'opera fondamentale nella storia della letteratura americana”. Lo è senza dubbio mi sento di dire, come è certo che questo romanzo uscito nel 1957, ma che snoda la sua narrazione errante in un lasso temporale compreso tra l’immediato secondo dopoguerra e il 1950, rappresenta uno dei testi più influenti e celebri della cultura d’oltreoceano del XX secolo, capace di influenzare anche il pensiero europeo. Non a caso ne conservo in biblioteca un paio di copie. La prima è questa edizione curata dalla San Paolo all’interno di una collana dedicata ai “Grandi della narrativa” edita nel 1998, che si arricchisce di una sezione iniziale dedicata alla vita dell’autore nato nel 1922 e alle sue opere, con una sintetica, ma efficace bibliografia di approfondimento. La seconda (che recensisco il LT), nella tradizionale edizione degli Oscar Mondadori (1995) nella collana “Scrittori del Novecento”, impreziosita da una bellissima introduzione dedicata alla “beat generation” firmata da Fernanda Pivano. In entrambe le stampe la traduzione è affidata a Magda de Cristofaro. A priori dico subito che, rivedendo anche i miei paranoici appunti di gioventù sui libri che leggevo (ero già un seguace del culto pagano dei libri, quegli stessi oggetti sovversivi che Ray Bradbury brucia nel 1953 nel suo celebre Fahrenheit 451), che le mie impressioni su “On the road” sono mutate più volte. Se nella foga idealista post adolescenziale lo avevo descritto e raccontato come l’essenza della fuga, dell’indipendenza, della scoperta, dell’esperienza, tanto poi da fare scelte che nella vita riflettono quell’idea e quelle sensazioni (ho scelto di viaggiare per anni in giro per il mondo rinunciando alle certezze di un lavoro sicuro), nella rilettura più matura ne ho ricavato sensazioni certamente più nostalgiche, una visione più distaccata di certi eventi fuori dalle pulsioni dal contesto storico in cui si svolgono. Dunque anche una minore speditezza nella lettura, che a tratti, lo confesso, mi ha quasi disorientato, benché la mia esperienza su latitudini e longitudini mi corra sempre in aiuto. Inseguire Sal Paradiso ed il suo circo di amicizie un po’ folli non è una passeggiata in piano, ma un po’ di cinetosi si può sopportare. Ne desumo che ciò sia l’effetto di quella che Kerouac stesso ebbe a definire come una “prosa spontanea” e che quella incredibile spontaneità che l’autore trasferisce alla sua scrittura mi è apparsa come l’immagine in velocità delle righe al centro della strada che si percorre. Insomma, si deve metabolizzare la velocità e al contempo il senso dell’istantanea. Si deve cogliere l'istante perché, in quanto tale, è irripetibile, non più rielaborabile all’interno di un testo scritto per catturare il flusso di coscienza e l'energia del movimento, essenza stessa del viaggio che spinge gli interpreti a girovagare con, ma anche senza, una meta precisa. Una necessità vitale per una gioventù ribelle che cerca di sovvertire l’ordine sociale e culturale in cui si trova a vivere e al quale rifiuta di conformarsi. La Hudson dei protagonisti, che corre, scivola via, quasi senza una rotta precisa, sulle strade d’America, incarna lo spirito d’avventura, la voglia di improvvisazione, di estemporaneità del periodo beat. «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero» diceva Orazio, “mentre parliamo il tempo sta fuggendo, come se ci invidiasse. Cogli l'attimo (afferra il giorno) e spera il meno possibile nel domani”. Il romanzo di Kerouac è un “carpe diem” che ha caratterizzato un’epoca in cui, le ferite ancora aperte di chi tornava dal fronte della Seconda Guerra Mondiale si mescolavano ad un’insofferenza generazionale che contestava i padri, ma anche il sistema del buon vivere americano, delle politiche del potere guerrafondaio e cercava una nuova filosofia di vita. Un ricerca che, negli anni che seguiranno, influenzerà fortemente la gioventù americana, i movimenti pacifisti, le arti, la narrazione della vita stessa. Per chi non ne abbia mai sentito parlare, dico subito che il romanzo è diviso in cinque parti. Kerouac racconta di una incredibile serie di viaggi in autostop e autobus, in gran parte improvvisati, fatti dal veterano Sal Paradiso (oggi diremmo l’avatar di Kerouac stesso) e dai suoi amici attraverso gli Stati Uniti. Kerouac lo scrisse in poco meno di un mese, nella primavera del 1951 nella sua dimora di New York, rielaborando i suoi diari di viaggio fatti con gli amici tra il 1947 e il 1950. Possiamo quindi chiaramente parlare di un romanzo autobiografico nel quale non è nemmeno molto difficile identificare protagonisti e attori: se Sal Paradise, aspirante scrittore in cerca di ispirazione, è l’alter ego di Kerouac, il controverso amico Dean Moriarty, carismatico, istintivo, che nell’avventura trova il senso puro della libertà, certamente si ispira a Neal Cassady. A completare il cast troviamo poi Carlo Marx (Allen Ginsberg) e Old Bull Lee (William S. Burroughs). In un’America in grande fermento, dove lo scontro generazionale va salendo, Sal, nell’inverno del 1947, conosce Dean Moriarty da poco uscito di prigione e novello sposo, con un concetto assolutamente beat del matrimonio libero, poligamo e “sperimentale”. Insieme a loro bazzicano tra locali e comuni improvvisate un gruppo di giovani pensatori tra cui, il nome è già un programma, Carlo Marx il poeta. La filosofia di vita di Moriarty è contagiante. La sua visione libertaria della società, talvolta fortemente egocentrica, perennemente alla ricerca di esperienze al limite, con ampio abuso di alcol e droghe, influenza il gruppo, ma soprattutto Sal, alimentando nel giovane protagonista una sorta di idolatria nei suoi confronti, nonché la brama di evasione da confini geografici e barriere ideologiche, dalle convenzioni, dalla necessità di sperimentare e allargare i propri orizzonti di bravo ragazzo americano. E il viaggio è la via di fuga, la dimensione errabonda e dell’avventura che lo porterà a percorrere la mitica Route 66, a scivolare da una costa all’altra degli States, a San Francisco e Los Angeles, dove conosce una ragazza messicana di cui si innamora, nelle grandi distese del Midwest, tra i Grandi Laghi, nelle paludi del profondo sud oggi tanto care alla scrittura di Lansdale. Colonna sonora del viaggio per antonomasia è il jazz primigenio, il be bop alla Miles Davis e la voce dai riflessi blues di Billie Holiday. “In principio il nostro viaggio fu piovigginoso e misterioso. Potevo capire che tutto stava per diventare una gran saga nella nebbia. “Urrà” urlava Dean. “Ecco che andiamo!” E si rannicchiava sul volante e lanciava la macchina come un bolide; era tornato nel suo elemento, ognuno di noi poteva vederlo. Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare” (“On the road” di Jack Kerouac). Non è la meta che importa, è il viaggio. Non è un viaggio, sono tanti viaggi. Che messi insieme rappresentano nella narrazione di Kerouac una rivoluzione culturale capace di catturare l'essenza e l'energia della controcultura beatnik degli anni '50 e influenzare generazioni a venire di artisti, scrittori e musicisti. Nel libro però, quasi tutto dovesse avere una fine per ritrovare una rinascita, Sal, complice una malattia, inizia a distaccarsi da Dean, ne comprende l’egoismo dell’abbandono e umanizza il mito, non lo colpevolizza perché in lui matura la consapevolezza che è il momento di scegliere cosa fare della propria vita, lasciando il compagno di tante avventure alla esistenza errabonda e sbandata che egli si è scelto Credo di aver già detto molto su un libro su cui è stato scritto davvero tutto e mi sarebbe oltremodo difficile, nello spazio che mi sono accordato, elaborare un trattato sulla cultura e sulla generazione beat. Per questo rimando all’ottima presentazione di Fernanda Pivano nell'edizione Oscar Mondadori che fa un racconto e un'analisi accurata del fenomeno. Chiudo con un pettegolezzo, una piccola faziosità sollevata da alcuni, tra questi il critico Ronald K.L. Collins che, dalle pagine del Washington Post, insinua il dubbio che forse, senza quella fortuita, brillante, convincente recensione a firma di Gilbert Millstein sul New York Times (era il settembre del 1957), “On the road” sarebbe stato un libro qualunque. Millstein, che influenzò certamente altri recensori dopo di lui, ne parlò come di “un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte” e aggiunse definendo il libro come “l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”. Va da sé che un libro cult generazionale come “Sulla strada” ha da sempre raccolto intorno a sé grandi estimatori che lo hanno esaltato per aver offerto una onesta rappresentazione della gioventù dell'epoca e dei propri ideali, così come di detrattori che lo hanno aspramente criticato per aver enfatizzato uno stile di vita anarchico, senza regole e persino autodistruttivo. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto senza quella fatidica recensione, quello che però possiamo affermare con certezza è che “Sulla strada/On the Road" ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura e la cultura americana, influenzando scrittori e autori come Bob Dylan, Allen Ginsberg e Hunter S. Thompson. Ha anche ispirato molte persone a intraprendere viaggi simili in cerca di avventura e del significato della vita.
35 livres cultes à lire au moins une fois dans sa vie Quels sont les romans qu'il faut avoir lu absolument ? Un livre culte qui transcende, fait réfléchir, frissonner, rire ou pleurer… La littérature est indéniablement créatrice d’émotions. Si vous êtes adeptes des classiques, ces titres devraient vous plaire. De temps en temps, il n'y a vraiment rien de mieux que de se poser devant un bon bouquin, et d'oublier un instant le monde réel. Mais si vous êtes une grosse lectrice ou un gros lecteur, et que vous avez épuisé le stock de votre bibliothèque personnelle, laissez-vous tenter par ces quelques classiques de la littérature. The wonder of Kerouac’s muscular, free-form, imagistic language still astonishes. He remains an essential American mythologiser – one caught up in that backstreet world of bohemian life, before it was transformed by the harsh social Darwinism of capitalism. The title of his one towering achievement became a turn of phrase that went global, and his name became an adjective. That strikes me as not a bad legacy for a boy from the mean streets of post-industrial New England. A hundred years after his birth, we still want to live that Kerouacian vision of life as one long cool stretch of highway. El Sal Paradise de todas las ediciones conocidas de esta novela mítica es aquí, al fin, Kerouac. Y también Cassady, Ginsberg y Burroughs aparecen con sus verdaderos nombres. Con la publicación del rollo original, la gesta viajera y existencial de En la carretera se vuelve autobiográfica de pleno derecho y a plena luz del día, sin censura alguna. Y el relato adquiere toda su potencia narrativa. El lector tiene en sus manos una suerte de manifiesto de la beat generation. Seguimos a Kerouac y a toda la cáfila que desfila por estas páginas en toda su desnudez y penuria. Precursores del movimiento hippy y la contracultura de finales de los años sesenta, los personajes de esta novela pululan sin rumbo por Norteamérica. La sed vital insatisfecha, la búsqueda de horizontes de sentido, de dicha y de conocimiento y los atisbos místicos se estrellan contra una realidad inhóspita y desesperanzada. Un vívido compendio de los grandes temas, y al tiempo una apasionante aventura humana y una metáfora de la existencia. «El rollo original de On the Road es una de las más veneradas y enigmáticas reliquias de la literatura moderna... Un texto fascinante» (James Campbell, The Times Literary Supplement). Pertence à Série da EditoraBibliotheca stylorum (2003) Compactos Anagrama (10) — 16 mais Gallimard, Folio (766) L&PM Pocket (358) Penguin Audiobooks (PEN 37) Penguin Modern Classics (3192) rororo (1035) Está contido emJack Kerouac: Road Novels 1957-1960: On the Road / The Dharma Bums / The Subterraneans / Tristessa / Lonesome Traveler / Journal Selections (Library of America) por Jack Kerouac Romanzi por Jack Kerouac Tem a adaptaçãoÉ resumida emÉ uma versão expandida deInspiradaTem como estudoTem um comentário sobre o textoTem um guia de estudo para estudantesPrémiosDistinctionsNotable ListsBulgarian Big Read (93) Waterstones Books of the Century (No 14 – 1997)
On the Road chronicles Jack Kerouac's years traveling the North American continent with his friend Neal Cassady, "a sideburned hero of the snowy West." As "Sal Paradise" and "Dean Moriarty," the two roam the country in a quest for self-knowledge and experience. Kerouac's love of America, his compassion for humanity, and his sense of language as jazz combine to make On the Road an inspirational work of lasting importance. Não foram encontradas descrições de bibliotecas. |
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![]() GénerosSistema Decimal de Melvil (DDC)813.54Literature English (North America) American fiction 20th Century 1945-1999Classificação da Biblioteca do Congresso dos EUA (LCC)AvaliaçãoMédia:![]()
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The only thing keeping this at two stars is the sheer enthusiasm of the writing. (